RIFLESSIONI LIBERALI – Le liste d’attesa ancora in attesa.

A cura di Matteo Grossi – Membro Fondazione Luigi Einaudi.

Che fine ha fatto il decreto varato la scorsa estate dal governo per tagliare le liste d’attesa? Ce lo chiediamo perché accedere al Servizio sanitario nazionale è diventato un percorso a ostacoli: tra la prescrizione di una visita e l’effettiva prestazione possono passare settimane, mesi, a volte anni. Un’anomalia che mette in discussione il principio di universalità. Ogni anno milioni di persone sono costrette ad affrontare lunghe attese per accedere alle cure, aspettando il proprio turno tra liste infinite e tempi dilatati. A rendere tutto più diffcile è il senso di paura e di incertezza che accompagna questi lunghi intervalli: il timore che dietro un sintomo possa nascondersi qualcosa di grave o che una condizione già diagnosticata possa peggiorare nel frattempo. In molti, per evitare rischi ulteriori, si vedono costretti a rivolgersi alla sanità privata, spesso sostenendo costi che non tutti possono permettersi. Nel 2023 abbiamo speso ben 40 miliardi di euro in prestazioni private. Una cifra che ci colloca tra i peggiori in Europa, superati soltanto da Portogallo, Belgio, Austria e Lituania. Tuttavia quel decreto ancora non attuato non affronta la causa principale di questa ineffcienza ovvero la frammentazione della Sanità. La difficoltà di raggiungere un’intesa con la Conferenza Stato-Regioni ha complicato il percorso, ma va chiarito da subito che il parere delle Regioni non era – e non è tuttora – vincolante. Il governo avrebbe potuto procedere comunque, se davvero avesse voluto. La responsabilità del ritardo, quasi un anno, è dunque interamente imputabile all’esecutivo, che pure a giugno 2024 parlava di urgenza. Il ministro della Salute Orazio Schillaci aveva annunciato che il governo non si sarebbe fermato in caso di mancato accordo. Più recentemente, anche il sottosegretario Marcello Gemmato ha respinto la richiesta delle Regioni di ulteriori negoziati, sancendo la mancata intesa. Questo episodio ha reso ancor più evidente l’insostenibilità di un sistema frammentato in cui ogni Regione agisce come un’entità separata. Prima di parlare di scarsi investimenti in sanità bisognerebbe quindi guardare alla disorganizzazione interna. Ogni Regione ha libertà di organizzare i servizi sanitari, ma senza un coordinamento centrale si creano sprechi, inefficienze e soprattutto diseguaglianze territoriali. Le Regioni di fatto non sono in grado di gestire in modo equo e uniforme la domanda di cure, creando barriere geografche che impediscono a milioni di cittadini di accedere alle prestazioni sanitarie in tempi adeguati. Secondo dati recenti del Ministero della Salute e di Agenas, una risonanza magnetica in Lombardia può avere un tempo di attesa medio di 20-30 giorni, mentre in Calabria o in Sicilia può superare i 90 o arrivare addirittura a quattro mesi. Per molti l’alternativa del privato non è un’opzione: così, di fronte a liste di attesa interminabili, una percentuale crescente di cittadini rinuncia a visite ed esami e quindi di fatto a curarsi. Centralizzare la gestione della Sanità, mettendone il controllo sotto la direzione dello Stato, sarebbe un’ottima soluzione. Chi è all’opposizione spesso denuncia la mancanza di fondi ma è un copione già visto, sicché una volta al governo si ritrova a far fronte alle stesse diffcoltà mentre chi subentra all’opposizione riprende il coro delle accuse. Intanto i problemi restano irrisolti perché si fa finta di non capire che è la regionalizzazione il vero nodo da sciogliere. Non si perda tempo, si cominci da qui. Presto, che è tardi.

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