Pasta-Gate

A cura di Matteo Grossi – Fondazione Einaudi

Nel lessico dell’economia internazionale, “dumping” non è una malattia tropicale, ma una pratica commerciale scorretta. Significa vendere un prodotto all’estero a un prezzo inferiore rispetto a quello normalmente praticato sul mercato interno, o addirittura sotto i costi di produzione. È una strategia, spesso usata per penetrare un mercato straniero, guadagnare quote e mettere fuori gioco la concorrenza. In risposta, i Paesi che si sentono danneggiati possono applicare dazi “antidumping”, che sono le tariffe aggiuntive pensate per riportare il prezzo del prodotto importato a un livello normale, che non danneggi le imprese locali. Non è una guerra commerciale e neppure protezionismo, è un meccanismo regolato da norme internazionali, previste dalla WTO (Organizzazione mondiale del commercio). È una forma di arbitrato tra concorrenza e distorsione. Quello che sta succedendo negli Stati Uniti con la pasta italiana – e che ha agitato in modo teatrale i politici nostrani – rientra perfettamente in questo schema. Tuttavia, come spesso accade in Italia, la realtà viene inscenata come una commedia già vista: si prende un fatto tecnico e lo si impacchetta come un dramma da prima serata televisiva, pronto per chi finge di capire e per chi spera di confondere. Giuseppe Conte ha evocato il ritorno di Donald Trump come il prologo di un attentato alla nostra sovranità culinaria, annunciando con gravità un dazio del 107% sulla pasta italiana. Riccardo Magi di Più Europa ha fatto eco, denunciando un’oscura strategia americana per favorire le imitazioni e costringerci alla delocalizzazione. Ma la verità è che il Dipartimento del Commercio americano – organo tecnico e non politico – mesi fa ha avviato (quando Trump non era ancora stato eletto) un’indagine su richiesta di aziende locali. Non contro l’Italia, ma su alcune aziende italiane, in particolare La Molisana e Garofalo. Secondo l’accusa, avrebbero venduto pasta negli Stati Uniti a prezzi considerati anormalmente bassi. In mancanza di collaborazione documentale – cioè dati incompleti – è scattata una misura provvisoria: un dazio antidumping del 91,74%. A questo si somma un dazio del 15% già in vigore su tutta la pasta europea, ed ecco servito il famigerato 107%. Non è un colpo di Stato contro le penne rigate. È una procedura standard, prevista dalle regole che anche noi, come Unione Europea, applichiamo in circostanze analoghe. Ma Giuseppe Conte e soci fanno finta di non sapere, o peggio ancora, sanno e fanno finta che sia comunque colpa di qualcun altro. Ciò che inquieta veramente non è la misura americana, ma la reazione italiana: isterica e alquanto furbesca. Si grida al protezionismo statunitense, ma si tace sul fatto che alcune aziende abbiano scelto di non fornire documentazione sufficiente, innescando di fatto il trattamento punitivo. Si parla di delocalizzazione forzata, ma poi si scopre che i manager italiani stanno valutando seriamente di aprire uno stabilimento negli Stati Uniti, come se l’inchiesta fosse solo una scusa per una decisione già in cantiere. La colpa, insomma, è sempre degli altri. Prima dei cinesi, poi degli americani che – guarda un po’ – applicano le stesse regole di mercato che noi invochiamo solo quando ci conviene. E quando qualcuno, oltreoceano, prova a farci i conti in tasca, invece di rispondere coi numeri, preferiamo allarmare i cittadini sui social a colpi di indignazione prêt-à-publier.

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