A cura di Matteo Grossi – Membro Fondazione Einaudi
Il sistema pensionistico non è una questione solo contabile ma di giustizia – Il nostro sistema pensionistico è una bomba a orologeria che fa già sentire il suo tic-tac, ma sembra che nessuno si stia affrettando a disinnescarla. Le varie riforme succedutesi nel corso dei decenni sono state approvate più per interesse politico che per necessità economica e hanno creato un sistema ingiusto e sbilanciato. Il modello a ripartizione è ormai obsoleto poiché si fonda su una premessa demografica che non esiste più, dato che l’Italia ha la popolazione più anziana d’Europa e il tasso di natalità è in continuo calo. I dati Eurostat ci dicono che spendiamo in pensioni più di ogni altro Paese europeo: il 15,5% del Prodotto interno lordo, finanziando il tutto con le stesse tasse pagate da chi lavora e contribuisce al sistema. Ma i contributi versati non bastano a coprire l’intero importo delle pensioni correnti. Dunque, è facile accorgersi che la miccia si sta avvicinando alla carica esplosiva. Un primo elemento di disuguaglianza è il trattamento di chi è andato in pensione prima del 1995, quando era in vigore il sistema retributivo. Queste persone hanno infatti contribuito con una percentuale del loro reddito inferiore rispetto a quella degli attuali lavoratori e soprattutto godono di pensioni che spesso superano di gran lunga i contributi versati. Questo è dovuto al fatto che il calcolo pensionistico si basava sull’ultimo stipendio percepito, nella maggior parte dei casi fra i più alti dell’intera carriera lavorativa. Chi andrà in vece a riposo nel 2070 con il sistema contributivo avrà probabilmente una pensione che si aggirerà – stando larghi – intorno al 60% dell’ultimo stipendio, mentre chi oggi percepisce la pensione ha visto a volte un tasso di sostituzione superiore al 70%. Tutto questo si traduce in un’altra grande distorsione: il sistema premia chi è in pensione a discapito di chi lo sostenta. Nonostante la spesa per le pensioni continui a crescere, non si riesce più a garantire ai giovani lavoratori una pensione degna, se non a livello di sussistenza. Ma questo non è soltanto un problema di bilancio, è anche un problema di giustizia. Le nuove generazioni stanno pagando per un sistema che non è stato costruito con una visione di lungo termine ma come uno strumento di consenso immediato. L’altro grande limite dell’attuale meccanismo previdenziale è che non si regge sui fondi accumulati ma sui trasferimenti pubblici. Ogni anno l’Inps deve ricorrere alla fiscalità generale per coprire il divario tra i contributi versati e le pensioni da pagare. Nel 2024 ha incassato contributi per soltanto 284 miliardi di euro. Per questo motivo lo Stato ha dovuto trasferire 181 miliardi all’istituto per colmare il divario e finanziare le pensioni. Detto ciò, c’è chi suggerisce di ricalcolare gli attuali assegni previdenziali e chi vorrebbe modificare il sistema contributivo. L’errore più grave che si possa fare è quello di proporre soluzioni senza una strategia complessiva. La soluzione non dev’essere solamente il taglio delle pensioni oppure la riduzione del tasso di sostituzione – come suggerito da alcuni – ma una riforma strutturale che garantisca la sostenibilità a lungo termine del sistema previdenziale. Le scelte fatte finora sono state dettate più dalla necessità di mantenere il consenso che dalla capacità di guardare al domani. Se vi è qualcuno che intende inserire delle vere riforme nella prossima legge di bilancio lo faccia e anche in fretta. Perché fino a quel momento l’unica certezza sarà quella di una bomba il cui scoppio sembra ormai inevitabile