Il drammatico racconto del mortarese ricoverato a Vigevano
Mentre era immobile sotto il ventilatore gli è morta la madre
È conosciuto da tutti a Mortara perchè è il “custode” delle migliaia di foto storiche che pubblica come amministratore sulla pagina Facebook “Foto e immagini di Mortara com’era”. Amedeo Pero, 64 anni, ha vissuto una durissima esperienza con la malattia del Covid e l’ha fatto con grandissimo spirito. «Sono sempre stato positivo, per carattere, ma non nego di avere passato momenti molto pesanti. Mentre ero ricoverato è morta mia mamma, sempre di coronavirus, all’ospedale di Vigevano. E nelle prime due notti che ho trascorso nel reparto Covid1, ex Otorino, trasformato per i malati più gravi, sono purtroppo mancati anche i miei compagni di camera. Prima uno e poi l’altro. Io ho cercato di non perdermi mai d’animo, di lottare. Ho sempre pensato che ne sarei uscito guarito. Forse anche questo mi ha aiutato. Ma questa malattia è veramente lacerante, oltre a essere infinitamente lunga». Prima di iniziare a raccontare l’inizio della sua pandemia personale Amedeo Pero vuole spendere le sue parole per l’assistenza che ha ricevuto all’ospedale di Vigevano: «C’erano infermiere e dottori che hanno dato l’anima. Il personale vedeva cosa stava succedendo, sapeva che eravamo soli, senza parenti, e per questo ha cercato di fare tutto il possibile. Stremati, negli ultimi giorni anche dal caldo, perchè l’aria condizionata non era ancora funzionante, per l’ipotesi di una possibile trasmissione dell’infezione. Anche qui, come in tanti altri ospedali, hanno dato tutto quello che si poteva». La storia del Covid di Amedeo Pero inizia senza sospetti. «Anche perchè – racconta – non ero mai uscito, non avevo mai avuto possibilità di prendere la malattia. L’unica cosa che ho dovuto fare, però, ma questo l’ho valutato solo dopo, è stata una visita di controllo in ospedale. Preciso, non al Civile di Vigevano, per evitare fraintendimenti. Probabilmente in quell’ambulatorio ho preso la malattia. Ma questo lo posso solo ipotizzare. A casa, a metà marzo, mi è venuta la febbre, ma non immaginavo neppure lontanamente che potesse essere coronavirus. Non un colpo di tosse, solo febbre. A un certo punto ho iniziato ad avere inappetenza e mi sono mancati i sapori. Il mio medico curante ha cercato in tutti i modi di ottenere un ricovero, ma eravamo al 20 marzo ed era difficilissimo. Poi è successo che ho praticamente perso conoscenza, non mi ricordo più nulla dei due giorni prima del ricovero. Finalmente è arrivata l’ambulanza in codice rosso. Ero positivo al Covid». In ospedale Amedeo Pero è rimasto dal 25 marzo all’11 maggio. Un lunghissimo periodo. «A parte gli ultimi giorni – continua – sono stato moltissimo tempo con il casco “Cpup” (Continuous positive airway pressure, ovvero ventilazione a pressione positiva continua ndr) e non è certo una bella vita. Il casco ha dei pesi per fare pressione, si viene cateterizzati e si deve restare pressochè immobili con flebo in entrambe le braccia. Mi è capitato di passare anche sedici ore di fila così. Ma il beneficio era evidente. Respiravo, l’ossigeno era una salvezza. Quando sono arrivato ero in uno stato di semi incoscienza e mi mancava l’aria. Con il casco mi sono ripreso subito. Per fortuna non è stata necessaria la terapia intensiva. Ma i giorni sono stati lunghi e difficili. Quello più brutto quando è morta mia mamma». Anche la dimissione non è stata semplice, come non è semplice questa malattia. «Prima un tampone negativo, ma il secondo era risultato ancora positivo, quindi niente dimissioni. Ora sono a casa in quarantena e faccio ancora fatica a fare le scale. Devo aspettare altri due tamponi negativi prima di ottenere la “patente” per uscire di nuovo. Il dramma è stato anche per mia moglie, che si è vista morire mia mamma mentre io ero ricoverato grave. Avrebbero dovuto farle almeno un tampone, credo, ma finora non è successo».